sabato 2 giugno 2018

ZTE e Huawei, vittime della guerra commerciale fra USA e Cina? #prospettive - [ad_1]

Il 16 aprile 2018 il dipartimento del commercio statunitense ha emesso un “Denial Order” contro ZTE, obbligando le aziende americane a sospendere ogni fornitura di servizi o prodotti al gigante cinese delle telecomunicazioni. Un blocco che ha messo in ginocchio la compagnia di Shenzhen, la cui produzione dipende per il 25% dalle importazioni di componenti dall’America. Un mese più tardi, a metà maggio, il colpo di scena: il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con un tweet, decide di graziare ZTE, per salvare migliaia posti di lavoro. In Cina.

Pochi giorni fa il Presidente americano ha poi aggiunto che ZTE dovrà comunque pagare la multa da 1,3 miliardi che le era già stata comminata per riprendere a far affari con le aziende statunitensi, assicurando l’acquisto di quantitativi strategici di materiali e forniture dalle aziende americane. Il Congresso americano, nel frattempo, ha votato un emendamento che prova a bloccare preventiamente il tentativo di salvataggio da parte di Trump.
La vicenda di ZTE mette in luce tutta la schizofrenia di un’Amministrazione USA che da una parte insiste a voler instaurare dazi e imporre politiche protezionistiche, dall’altra è subito pronta a ritrattare quando le aziende americane (o meglio, le loro lobby) subiscono gli effetti di scelte commerciali scellerate e inattuabili sul piano globale. Intanto ZTE è finita in ginocchio e rischia di non riuscire a riprendersi dalle perdite causate dalla decisione del Dipartimento del Commercio USA.

Va ricordato comunque che in questa vicenda ZTE è tutto tranne che una vittima innocente. L’azienda era già stata sanzionata nel 2017 dal dipartimento del commercio per ragioni assai gravi: aveva venduto le proprie infrastrutture all’Iran e alla Corea del Nord, contravvenendo all’embargo imposto dagli Stati Uniti. La pena patteggiata da ZTE con le autorità USA prevedeva il licenziamento dei dirigenti responsabili degli scambi commerciali con i due stati canaglia e azioni disciplinari contro altri dipendenti coinvolti nell’iniziativa. Obblighi che l’azienda, a marzo di quest’anno, ha ammesso di non aver rispettato in toto, innescando così il suddetto “Denial Order”. Insomma, ZTE si è candidata con le proprie mani al ruolo di agnello sacrificale perfetto nella guerra fredda commerciale fra Stati Uniti e Cina, di cui le schermaglie nel settore tecnologico sono uno dei tanti fronti aperti.

L'intelligence contro Huawei

A un precedente capitolo dello scontro fra USA e Cina avevamo già assistito a inizio gennaio, quando è saltata all’ultimo minuto la partnership fra Huawei e AT&T per la distribuzione degli smartphone dell’azienda cinese negli Stati Uniti. Tutto era pronto per l’annuncio, che sarebbe dovuto arrivare in occasione del CES di Las Vegas. Poche ore prima, l’improvviso cambio di rotta: l’operatore americano comunica di essersi ritirato dall’accordo, senza particolari spiegazioni. Le ragioni della decisione, già note agli addetti ai lavori, si fanno palesi poco più di un mese dopo, quando sei dirigenti di altrettante agenzie di intelligence americane (incluse CIA, NSA e FBI) dichiarano pubblicamente che i dispositivi di Huawei (e ZTE) rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale. Il più esplicito è stato Chris Wray, direttore del Federal Bureau of Investigation: “siamo profondamente preoccupati circa il rischio che qualsiasi compagnia o entità legata a governi stranieri che non condividono i nostri valori possa guadagnare posizioni di potere all’interno della nostra rete di telecomunicazioni”.

Accuse molto gravi e non circostanziate, né corroborate dai fatti, a cui Huawei ha risposto con toni fin troppo pacati, ricordando che “governi e consumatori di 170 paesi nel mondo si fidano di noi; non poniamo un rischio di cybersicurezza superiore a quello di qualsiasi altro produttore”. L’azienda di Shenzhen avrebbe potuto sicuramente dire di più, e magari ricordare che - secondo le rivelazioni di Snowden al Der Spiegel - è l’NSA che nel 2009 spiò l’azienda cinese, arrivando fino a penetrare nella rete aziendale. E sempre secondo le rivelazioni del whistleblower, sono le agenzie americane le prime a promuovere un controllo capillare delle comunicazioni grazie a backdoor installate nei prodotti e nei servizi delle aziende USA.

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Se è vero che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, l’impressione è che la vera preoccupazione dell’intelligence USA sia esattamente l’opposto di quanto dichiarato: i dispositivi di Huawei pongono un rischio per la sicurezza nazionale perché le agenzie statunitensi non hanno modo di controllarli come fanno con i prodotti americani. A rincarare la dose ci ha infine pensato anche il Pentagono, che a inizio maggio ha messo nero su bianco una precedente “regola non scritta” per tutto il personale militare americano: a chi lavora nelle basi USA è fatto esplicito divieto di acquistare e usare dispositivi Huawei o ZTE.

L’avversione degli americani verso i due colossi cinesi del settore telco non è una novità. Fin dal 2012, quando era in carica la più benevola amministrazione Obama, ZTE e Huawei sono vittime di un boicottaggio silenzioso da parte degli USA che non riguarda gli smartphone, bensì le infrastrutture di rete. Un settore critico e molto più redditizio rispetto ai cellulari, che contribuisce in larga parte ai fatturati miliardari delle due aziende. Con l’aumento dell’importanza strategica delle future innovazioni nello sviluppo del 5G, di cui Huawei e ZTE sono entrambe attori di rilievo sul palcoscenico globale, le resistenze degli Stati Uniti verso i due colossi cinesi non potranno che rafforzarsi.

L'ascesa cinese e i timori fondati

A giudicare dai report degli analisti, gli Stati Uniti non hanno tutti i torti a temere la concorrenza cinese nel settore tecnologico ed è comprensibile che facciano di tutto - ricorrendo come d’abitudine al tormentone mediatico della sicurezza nazionale - per minare la credibilità delle aziende asiatiche. A tal proposito basta un veloce sguardo all’Internet Trends Report 2018 di Mary Meeker (Kleiner Perkins) pubblicato pochi giorni fa: nella classifica 2013 delle maggiori aziende tecnologiche per valutazione di mercato comparivano soltanto due società cinesi, Tencent e Baidu. Oggi sono nove, e sette di queste nel 2013 non figuravano neppure nella top 20. Molte operano ancora solo in Cina e in altri paesi che non includono gli USA.
Un nuovo studio di CompuMark, poi, ha mostrato di recente come la Cina potrebbe superare gli Stati Uniti già entro il 2020 per numero di marchi registrati in paesi stranieri, a riconferma che il mercato americano, per quanto importante, non è più indispensabile per alimentare la crescita globale, anche nel settore tech.


Uno stato delle cose che anche Huawei ha dovuto accettare, suo malgrado. L’obiettivo di superare Apple e Samsung e diventare il maggior produttore di smartphone al mondo entro il 2020 è ancora valido, ma l’azienda di Shenzhen dovrà riuscire nell’impresa abbandonando il tanto agognato grande sogno americano e puntando su altri mercati ad alto potenziale. Come l’India e altri paesi in via di sviluppo. Oppure la cara vecchia Europa (o meglio, l’area EMEA), verso cui Huawei ha già in parte dirottato il budget enorme che era già stato destinato all’espansione negli Stati Uniti. O ancora l’America Latina, dove sia Huawei che ZTE hanno una buona penetrazione del settore delle infrastrutture di rete, ma sono virtualmente assenti nel settore smartphone. Il gigantesco mercato brasiliano, ad esempio, è dominato dai coreani di Samsung e da Motorola, cioè Lenovo.

Per contro proprio Lenovo, altra azienda cinese, potrebbe approfittare dell’indebolimento di Huawei e ZTE per attaccare di nuovo proprio il mercato americano. I suoi nuovi G6 Play sono perfetti per sottrarre a ZTE il dominio della fascia bassa, strappando magari al concorrente i contratti con alcuni dei maggiori operatori nazionali. A vantaggio di Lenovo va il peso del brand, che è forte delle proprie radici americane. Sarà un caso ma proprio in occasione del recente lancio dei nuovi G6, in Brasile, Motorola ha comunicato la decisione di abbandonare la dicitura “a Lenovo Company” dalle confezioni dei prodotti e dai materiali ufficiali destinati ad alcuni mercati. Fra cui, guarda caso, c’è anche quello americano. Forse nella speranza che alla Casa Bianca, a Langley o Fort Meade non si accorgano che anche dietro l’amato logo chicaghese della M si nascondono in realtà i temibili nemici comunisti.

L'autore

Andrea Nepori è un giornalista freelance esperto di tecnologia e culture digitali.
Scrive per La Stampa e Rivista Studio. Vive a Berlino.
È suddito, suo malgrado, di quasi tutti gli “imperi per l’alterazione del comportamento”, ma preferisce questi due:

Twitter: @andreanepori
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